22
Apr

Per la Comunione regaliamo il telefonino ?

Non ho intenzione di demonizzare gli smartphone ma bisogna conoscerne i rischi. L’importanza delle regole quando cominciano a usarli: “Poche ore al giorno e spenti ben prima di andare a letto”

“Il professore sequestra il cellulare, ragazza in gita a Venezia si getta”.


Il telefonino è una droga. Le parole del Papa ai liceali rimbalzano al convegno di Piacenza dove mille esperti d’infanzia, qualche settimana fa, hanno discusso.


E’ giusto considerare il telefonino come una droga?
Si certo, si parla di dipendenza come per le altre droghe nel senso che le sostanze o l’uso smodato dello smartphone disattivano le aree cerebrali del controllo e si “agganciano” a quelle dopaminiche, ovvero del piacere. È tipico di questi strumenti, che non sono da demonizzare ma i cui rischi sono noti.


Per quale motivo lo smartphone si trasforma in uno strumento che dà dipendenza?
Perché viene usato dai ragazzi, soprattutto tra i 12 e i 14 anni, per fare i videogiochi che sono la forma più pericolosa di abuso: devi partecipare nella logica del raggiungimento di un obiettivo. E il cervello si attiva in senso compensatorio: non stacchi sino a che non arrivi al risultato che cambia sempre e non è mai definitivo. Per questo non c’è nessun ragazzo che riesce a smettere da solo. Occorre una limitazione esterna.


Qui entrano in gioco i genitori: cosa devono fare?
Mettere dei limiti. Nelle sedute di coaching è venuta una mamma con un ragazzino di 11 anni raccontandomi che gli aveva regalato lo smartphone per farlo contento. Le ho chiesto: ha messo delle regole? Perché mai, mi fido di mio figlio: la sua risposta. La fiducia non può sostituire la necessarie regole educative.


Ma quando sono adolescenti passano da un video a un gioco, da una chat a Instagram: è difficile intervenire per staccarli, il cellulare è il loro mondo.
“Il marketing crea molte bufale come questa: ci sono tanti ragazzi che praticano sport, che fanno altro. Il problema è che una volta creata l’abitudine si fa più fatica a tornare indietro. E arriviamo a vedere diciottenni che passano sette-otto ore al giorno davanti a quel piccolo schermo. E che stanno male, si ritirano da una vera vita sociale.


Quindi cosa si dovrebbe fare: vietare il telefonino?
Intanto bisogna aspettare un’età ragionevole per darlo in mano ai ragazzi. Per agevolare l’autonomia basta un telefono in prima media, solo dalla terza media si può pensare allo smartphone ma con delle regole: non più di un’ora al giorno. Progressivamente si può aumentare, ma senza superare le due ore. In più va regolato l’uso alla sera per evitare i disturbi del sonno. Togliere il cellulare prima di andare a letto fa parte della convivenza familiare. Ed è il padre che deve intervenire”.
Le sgridate della mamma non servono?
“Il “te lo ripeto dieci volte”, ti sgrido, ti ricatto, ti premio se mi ascolti sono cose che sul bambino hanno influenza. Ma un adolescente è in grado di aggirare gli sbarramenti materni. Ha bisogno invece di una regolazione paterna”.
Un no detto da un papà invece funziona?
“La madre tende ad essere affettiva ed emotiva. Normalmente il padre ha una capacità maggiore di negoziazione. Ecco come funziona per l’uso dello smartphone: di notte non lo puoi usare, a che ora me lo consegni? Ovvero ti metto un paletto, poi negoziamo”.
Il Papa parla anche di una comunicazione che non può essere fatta di semplici contatti.
“Il problema dal mio punto di vista non è morale, sta nella quantità e nell’età nell’uso dello smartphone. Nei ragazzi il cervello è in formazione, il danno è maggiore. Da educatore mi rivolgo per questo ai genitori sempre più fragili nel mettere delle regole: per aiutarli”.

Come mettere delle regole con i figli? Alla prossima puntata …


16
Feb

Sei dipendente dal tuo smartphone? Scoprilo

Come possiamo difenderci dall’abuso di tecnologia ? Vivendo da protagonisti.

Una delle conseguenti più evidenti di questa situazione è la sindrome “FOMO” – Fear Of Missing Out- ciaoè la paura di “ essere tagliati fuori”, che caratterizza molti di noi cybernauti alle soglie del 2020.

A caratterizzare questa sindrome è il pensiero costante che i nostri amici stanno facendo qualcosa di più interessante di noi e che, se non controlliamo quello che stanno facendo, potremmo perderci qualcosa. Gli effetti sono impressionanti.

La prof. Ssa Mary Meeker , presentando nel 2018 i risultati della ricerca Internet Trends 2018, ha ricordato come oggi un utente controlli il proprio smartphone in media centocinquantavolte volte al giorno: una volta ogni sei minuti ( … e che se uno se li desse di baci!!!).

E anche di notte la situazione non cambia: più di sei adolescenti tra i dodici e i vent’anni dorme con al fianco il cellulare acceso; uno su dieci manifesta problemi a prendere sonno.

Un libro interessante ci viene in soccorso. Irresistibile, come dire no alla schiavitù della tecnologia, pubblicato nel 2017 da Adam Alter, professore di psicologia alla New York University. Come racconta l’autore, la tecnologia paradossalmente ci può aiutare.

Un primo passo consistere nel capire quanto effettivamente usiamo il nostro smartphone. Per il mondo Apple basta scaricare Moment, mente per gli Android è disponibile Phone Usage. Grazie a queste app possiamo controllare quanto tempo passiamo in media usando il nostro telefono cellulare e facendo cosa in modo dettagliatissimo.

Se per una settimana il tempo medio giornaliero supera le tre ore, allora è il caso di lavorare per ridurlo.

L’ obiettivo è sempre, dichiaratamente, quello di aumentare la consapevolezza delle abitudini, delle azioni giornaliere che abbiamo interiorizzato e che ci conducono verso stili di vita poco gratificanti.

E allora non ci resta che fermarci e riflettere ( a questo punto dovreste scrivervi quando e per quanto tempo pensate di fermarvi), per poi leggere, nove indicazioni pratiche e di buon senso, su cui agire oggi stesso.

1.Non puoi fare tutto; 2. Stai dove stanno i tuoi piedi; 3. Scegli le esperienze e non gli aggiornamenti sul tuo profilo; 4. Fai una cosa alla volta; 5. Riduci le distrazioni; 6. Concentrati sul presente; 7. L’erba del vicino non è sempre più verde; 8. Limita il tempo sui social media; 9. Gustati il viaggio

E se nella tua città, suonano dal vivo Le Quattro di Stagioni di Vivaldi, lascia tutto, chiudi gli occhi, e lasciati incontrare dalla Bellezza.

Luigi Pietroluongo

03
Feb

Anche tuo figlio gioca a Fortnite?

E’ la lettera di Reed Hastings, Fondatore e CEO di Netflix, arrivata agli investitori nelle ultime settimane che lascia pensare.

Scrive, con una certa sorpresa: “siamo più in competizione con Fortnite di quanto non lo siamo con Hbo” – e viene citato anche il picco di view toccato nell’ottobre scorso in coincidenza con un “down” di Youtube. Come a dire: il problema di Netflix non sono i suoi competitor naturali (Hbo, Hulu, Disney o Amazon) ma tutte le fonti di assorbimento del tempo dei suoi utenti. E il videogame Fortnite da questo punto di vista è imbattibile.

Lanciato all’inizio del 2017 prevede decine di utenti connessi contemporaneamente in modalità tutti-contro-tutti. A novembre gli utenti hanno toccato quota 200 milioni, con un aumento del 60% rispetto a giugno. E se a gennaio giocavano fino a 2 milioni di utenti contemporaneamente, dieci mesi dopo erano diventati più di 8 milioni.

Perché Fortnite è ben più del videogioco del momento; è un fenomeno da 40 milioni di utenti, capace di svelare i segreti del genere oggi più redditizio del settore – il battle royale – e di indicare come stiano cambiando i passatempi preferiti fra gli under 25: videogiocare e guardare chi lo fa, i famosi “Youtuber”.

Il Battle Royal è un genere, ispirato ad un famoso film giapponese da cui prende il nome, in cui i giocatori, di solito molti, devono scontrarsi su una mappa che si restringerà gradualmente e sopravvivere fino alla fine della partita rimanendo gli ultimi sopravvissuti. Fortnite prevede lande sperdute dove bisogna sopravvivere a nemici controllati dall’intelligenza artificiale, il giocatore è chiamato via via ad armarsi, a cooperare con un compagno e a costruirsi postazioni d’attacco, muri di protezione, addirittura piccole fortezze. In altri termini, quella di Fortnite è una miscela arricchita da una grafica in stile cartoon.

A febbraio 2018 ha incassato 103 milioni di dollari solo in micro acquisti e oggi conta circa 10 milioni di utenti in più del suo avo e concorrente. Fra questi ultimi, ci sono giocatori come Drake e Ninja (che per inciso, anche grazie al gioco, ha dichiarato di incassare 500mila dollari al mese). In Fortnite, la modalità battle royale è gratuita e cross-platform. Significa che giocatori su Pc, Xbox One, iOs e Mac (ma il gioco c’è anche per Playstation 4) possono condividere la stessa partita e senza spendere un euro.

Fortnite non è più un gioco, è diventato un fenomeno di costume.

Ma quali sono le componenti che “incollano” letteralmente i bambini e gli adolescenti, senza contare una quota crescente di adulti, allo schermo dei loro device?

Il rinforzo positivo, la competizione e l’assenza del game over.

Il rinforzo positivo segue lo stesso meccanismo del diabolico “Gratta e Vinci” in cui quando vinci 10 euro ti riempi di soddisfazione e ti dimentichi che ne hai spesi in acquisto biglietti 2.000, così in Fortnite hai la possibilità ogni tanto di fare piccole vincite e conquistare spazi, armi, alleanze, nuovi scenari. Ti incoraggia in continuazione con un messaggio subdolo che dice:” vedi che se ti impegni sei bravo, avanti continua così”. E via ore a giocare …

La competizione è tipica dell’età. Immaginate un adolescente esile, oppure al contrario molto robusto, timido, introverso, magari anche amante della tecnologia, amante della logica e della matematica e in una famiglia in difficoltà o perchè i genitori lavorano tutto il giorno o perchè particolarmente conflittuali. Un adolescente solo. Fortinite diventa il luogo della sua auto realizzazione virtuale, dove può dimostrare chi è a tutti ed essere rispettato. Per farlo deve allenarsi ore, sottratte allo studio, al sonno e soprattutto alle relazioni reali.

Quando eravamo piccoli, quelli della mia generazione classe 1972, giocavamo ai videogame nei bar della città o sul lido del mare a colpi di 500 lire. E dopo aver assillato i propri genitori per gli spiccioli, quando il gioco finiva, con la sua inequivocabile scritta GAME OVER, finiva anche l’attaccamento alla macchina fantasmagorica. I Giochi di adesso non finiscono mai. Fortnite, per esempio, non si può neanche mettere in pausa. E’ facile comprendere che i colori accattivanti, il cambio continuo dei paesaggi e degli scenari, la velocità e il ritmo di gioco, le strategie di cooperazione con i tuoi alleati e l’assenza della fine del gioco lo rendono troppo attraente e anche “sorvegliato speciale” per tutti gli adulti.

Molti mi chiedono se è giusto comprare Fortnite al proprio figlio ? La domanda è sbagliata, anche perché Fortnite non si acquista ma si scarica gratuitamente su tutte le piattaforme.

Le domande giuste sono:” sono consapevole che il mio compito educativo prevede a pieno titolo che io debba mediare tra il gioco e la realtà?” “Sono pronto a dedicare tempo, energie, a capire come gioca mio figlio, quanto tempo gioca, con chi gioca?” “Quali sono le alternative che io poso offrire a mio figlio oltre i giochi virtuali?” “In che modo alimento le sue passioni”?

#educareèmegliochecurare #cresciamoinsiemeaifiglichecresciamo

Luigi Pietroluongo

20
Gen

Educare è meglio che Curare

Il maestro Marcello Bruni e uno dei suoi tanti allievi

L’Educazione è una parola démodé. Di cui temo si sia perso il significato profondo e vitale.

Educare non significa avere una “buona condotta”, che è sempre auspicabile se si vive insieme ad altri. Non è un accumulo di esperienze, della serie più ne faccio e meglio è, non è neanche investire sulla memoria come potrebbe capitare in qualche istituzione scolastica o in qualche Università.

Allenare la memoria non è sintomo di intelligenza, anzi la mortifica e la possibilità che vengano trasmesse idee pre-confezionate sulla vita, sull’amore, la nostra socialità e il desiderio di futuro, è altissima.

Vivere senza lo slancio dell’Educazione è vivere il proprio tempo senza conoscersi, senza conoscere le nostre qualità, le potenzialità che ci possono garantire una vita felice per noi stessi e per le persone che ci circondano. E se non ci conosciamo veramente come possiamo cercare e trovare qualcosa che ci corrisponda profondamente ? La nostra Vocazione.

Il problema finale è proprio questo: è la nostra infelicità! Non nel senso che dobbiamo capire tutto, sapere tutto, non sbagliare e non soffrire ma nell’ incapacità di non ritrovarci e disperdere tutto il vissuto, fatiche e gioie, senza un Senso.

Educare significa compiere un viaggio, un cammino di incontri con se stesso e gli altri. Un cammino visibile e concreto, così che nel momento in cui ti fermi e ti guardi indietro ti accorgi della strada fatta.

Educare significa dare un senso all’esperienza, ricondurla ad uno scopo.  Significa credere in qualcosa che ancora non si vede, nel seme che darà la rosa, e investire sulle proprie qualità per far fiorire le qualità di chi incontriamo.

Scendere in profondità e porsi delle domande “trivella” che possano  scavare, scendere oltre il tempo frullato e velocissimo di tuti i giorni.

Molto spesso non riusciamo a diventare profondamente quello che siamo perché nessuno è stato disponibile a rischiare la sua fiducia Per noi. Ed è solo la fiducia che ci abilita al cambiamento.

Far crescere qualcuno non significa farlo aderire alle nostre aspettative e ai nostri desideri ma al contrario mostrare il proprio bene nell’accogliere la sua diversità, quello che lui veramente è, senza se e senza ma.

L’educazione è un viaggio molto lungo, non risponde alla cultura della performance, a volte si semina senza raccogliere nulla.

Ma la certezza è che niente, se seminato nel cuore di chi amiamo, va sprecato.

 

05
Gen

Esiste un metodo per rendere i bambini felici?

Il metodo Danese per crescere bambini felici è un libro che sta facendo molto discutere.

E’ stato scritto da Jessica Joelle Alexander, una mamma americana sposata con un danese e Iben Dissing Sandahl, una psicoterapeuta danese, anche lei con figli da crescere – che ad un certo punto si chiedono come mai tutte le ricerche sociali convergono nel designare la Danimarca come il paese  in grado di rendere, più degli altri, felici genitori e figli.

Il metodo si basa su sei semplici principi, le cui iniziali formano la parola “PARENT” (genitore): Play (gioco), Authenticity (autenticità), Reframing (ristrutturazione degli aspetti negativi), Empathy (empatia), No ultimatum (nessun ultimatum), Togetherness (intimità). 

Nel libro mi colpisce immediatamente questo esempio: «quando un bambino dipinge un disegno non occorre dirgli : “Wow sei un artista veramente straordinario!”. Molto meglio invece domandargli: “Cosa hai pensato mentre lo dipingevi?”, o “perché hai scelto questi colori?” o, semplicemente, “grazie”». Focalizzarsi sul processo, usando un linguaggio valutativo ed emozionale, e relativizzare l’esito di un gioco o un compito: è uno dei punti de Il metodo danese.

Alcuni consigli delle due autrici che mi hanno colpito e che ritengo molto interessanti, sfidanti e stimolanti per noi genitori.

  • “Consiglierei ai genitori di lasciare più tempo per il gioco libero. I bambini possono comunque fare sport, ma è una buona idea cercare di portarli (magari nei weekend se durante la settimana non si riesce) al parco, o sulla spiaggia o in un bosco e lasciarli liberi di giocare con altri bambini.”
  • “I genitori devono o no intervenire nei giochi dei loro figli? No, i genitori dovrebbero cercare di non intervenire molto, perché i bambini imparano tantissimo proprio dall’inventare strategie giocando insieme e risolvendo da soli i propri problemi. In questo modo imparano anche a governare lo stress, cosa che poi li aiuterà molto più avanti nella vita.”

Una scuola che faccia didattica fino alle quattro è troppo impegnativa ai suoi occhi? I bambini italiani sono poi spesso oberati dai compiti. Il fatto che ci siano molte ricerche appena uscite su questo aspetto mostra che i compiti a casa non aiutano gli studenti. 

In Finlandia, un paese leader in campo educativo, i bambini non hanno compiti finché non sono più grandi e lo stesso in Danimarca, paese leader sulla felicità. I bambini sono soprattutto incoraggiati a giocare. I compiti possono essere stressanti e, ripeto, la ricerca recente mostra che non funzionano affatto per i piccoli!

  • Come coltivare quella che lei chiama l’autenticità dei sentimenti o l’onestà emotiva? Si può coltivare l’empatia leggendo storie che inducano diversi tipi di emozioni (non solo felici). Questo insegna l’empatia e crea vicinanza con i bambini. La vita non sempre è allegra e per questo è bene essere onesti con loro sulle emozioni. Spesso sono gli adulti che hanno difficoltà a esprimere emozioni o concetti profondi. Per questo dovrebbero provare a sentirsi più a loro agio nel parlare di temi difficili: in questo modo potrebbero parlare con i propri figli in maniera facile e naturale.    
  • Lei suggerisce di evitare eccessive lodi e complimenti ai bambini, o meglio di farli quando c’è stato un effettivo impegno, non “a prescindere”. I danesi cercano di lodare i bambini, quando sono impegnati in attività, per gli sforzi, non per il risultato. Credono che sia meglio insegnare ai bambini ad apprezzare il processo, e che il giudizio sull’esito sia meno importante. Questo atteggiamento produce in loro una sorta di guida interna, autostima e gioia nel lavorare sulle cose.

Una qualità fondamentale che le autrici sottolineano nel loro libro è la capacità di “restrutturare” la realtà, fornire cioè un racconto positivo e incoraggiante di ciò che accade, riducendo la negatività.

Un ottimista realista è qualcuno che vede il mondo realisticamente. Non ignora che la negatività esista ma è capace di trovare i dettagli positivi in una situazione. “Ristrutturare” è un’abilità che può essere appresa e dunque anche insegnata ai bambini che crescono, in modo che lo facciano naturalmente. Le ricerche mostrano che il modo in cui noi scegliamo di interpretare o descrivere una situazione cambia radicalmente come noi la viviamo. Ci sono molti esempi nel libro. È un tema importante, ma può davvero cambiare la vita ed è una meravigliosa capacità che può essere trasmessa ai nostri figli.  

L’empatia è assolutamente importante. La differenza risiede nel fatto che i danesi la insegnano attivamente. Capiscono che occorre insegnarla, perché riduce il narcisismo, il bullismo e aumenta la felicità. È una capacità che si può approfondire a qualunque età. I genitori sono gli esempi più evidenti, ecco perché dobbiamo lavorare su noi stessi. Provare a cercare il bene negli altri e non etichettarli negativamente. Provare a mettersi nei panni degli altri. Ci sono molte altre idee ed esempi nel libro su come coltivare l’empatia.

L’autrice si sofferma sulle famiglie protettive, sport in cui noi italiani siamo campioni mondiali, perché dichiara apertamente che queste non favoriscono l’empatia. Quando sei troppo protettivo automaticamente proteggi tuo figlio dal provare grandi emozioni: ma così non apprende a capire le altre emozioni. L’empatia inizia comprendendo e fidandosi delle proprie emozioni, così che possiamo imparare come capire gli altri.

Nel libro si mette sotto accusa qualsiasi forma di violenza fisica, anche la sculacciata, ma anche il metodo degli “ultimatum”. Ma cosa fare di fronte a un bambino che si ostina a non rispettare le regole? Assegnargli una punizione (no televisione, no Ipad, no calcetto) non può essere utile?  

Scrive:” Ciò che io propongo è di non mettersi immediatamente in un braccio di ferro o conflitto con i bambini. Molti di noi usano immediatamente ricatti o ultimatum, mentre in Danimarca non usano affatto questo metodo. I danesi lavorano molto per spiegare le regole e le ragioni per le quali i bambini dovrebbero seguire le regole, sin da quando sono molto, molto piccoli (addirittura prima che parlino). È sorprendente: quando si spiegano costantemente le cose ai bambini per come stanno veramente  e con rispetto, in modo che possano capire e fidarsi (invece di usare minacce e punizioni), le cose funzionano in maniera stupefacente. A volte non ascoltano ma moltissime volte lo fanno. Insegna il rispetto e sii rispettoso e sarai rispettato: questa è la filosofia. Un genitore che si controlla si sente anche molto meglio. La calma genera la calma.”

L’autrice introduce il concetto di “hygge” per indicare un’intimità tra i membri della famiglia, che raggiunge il suo massimo grado quando ci si riunisce insieme per mangiare e per cantare. Nel libro si può trovare l’”hygge oath” o il “giuramento hygge”.

Scrive l’autrice:”È qualcosa di cui si può parlare in famiglia e che si può provare a mettere in pratica per un tempo limitato (una cena, un picnic, un pranzo). Hygge è uno spazio psicologico sicuro in cui si può stare con la famiglia senza alzare barriere. Quando entri nell’”hygge” lasci fuori dalla porta lo stress lavorativo, le lamentele, i pettegolezzi, la negatività. Per un periodo definito si cerca di stare insieme pensando a “noi”, non a “io”. I bambini soprattutto traggono benefici da questo tempo perché amano passare del tempo senza conflitti con le loro famiglie. Io l’ho provato con la mia famiglia americana e con i miei amici e davvero funziona. Molti dei nostri lettori l’hanno provato e amato. Credo che anche gli italiani potrebbero sentirsi molto bene perché amano parlare del cibo: qualcosa di molto “hyggelige”, perché è un esempio dello stare insieme senza barriere.”

Il metodo sarà  anche Danese ma in Italia abbiamo, in mezzo a tutti i nostri difetti, il nostro sorriso.

E vedere i propri genitori che provano a cantare e sorridere nelle difficoltà, credo sia un grande atto d’amore. Una grande eredità. 

Luigi Pietroluongo    

29
Dic

Allenamento per Genitori

L’abbraccio

Molti mi chiedono indicazioni pratiche da seguire, nel quotidiano, come strategie educative per i propri figli.

Quanto vi scrivo sono consigli di buon senso, ma non solo, sono anche il frutto di anni di esperienza e ricerca pedagogica sul campo.

Noi genitori cresciamo insieme ai figli che cresciamo, questo tempo di vacanze è un buon periodo per rimetterci in allenamento come testimoni di Gioia e Speranza. Sappiate che quando questi sentimenti sono autentici sono incredibilemte contagiosi.

Vademecum operativo.

  • Fissate  dei limiti, e ricordate che voi siete i genitori del bambino, non degli amici
  • Offrite al bambino uno stile di vita di bilanciato, ricco di ciò di cui ha bisogno, non solo di ciò che vuole
  • Non abbiate paura di dire “No!” quando ciò che il bambino vuole non è ciò di cui ha bisogno
  • Date a vostro figlio cibi nutrienti e limitate gli snack
  • Trascorrete almeno un’ora al giorno in uno spazio verde: andando in bici, camminando, pescando, osservando insetti o uccelli
  • Mettete via i cellulari durante i pasti
  • Fate giochi da tavolo
  • Fate svolgere al bambino piccoli lavori domestici
  • Assicuratevi che il bambino dorma un numero sufficiente di ore in una camera priva di dispositivi tecnologici
  • Insegnategli la responsabilità e l’indipendenza e non proteggetelo dai piccoli fallimenti. In questo modo, imparerà a superare le grandi sfide della vita
  • Non siate voi a preparargli lo zaino per la scuola, non portateglielo voi, se ha dimenticato a casa il pranzo o il diario non portateglielo a scuola, non sbucciate una banana per un bambino di 5 anni. Insegnategli piuttosto come si fa
  • Cercate di ritardare le gratificazioni e fornitegli opportunità di “annoiarsi”, perché è proprio nei momenti di noia che si risveglia la creatività
  • Non ritenetevi la fonte d’intrattenimento dei vostri figli
  • Non curate la noia con la tecnologia
  • Non usate strumenti tecnologici durate i pasti, in macchina, al ristorante, nei supermercati
  • Usate questi momenti come opportunità per insegnare ai bambini a essere attivi anche nei momenti di noia
  • Aiutateli a creare un “kit di pronto soccorso” della noia, con attività e idee per questi momenti.
  • Siate presenti per i vostri bambini e insegnate loro come disciplinarsi e comportarsi:
  • Spegnete i cellulari finché i bambini non vanno a letto, per evitare di essere distratti
  • Insegnate al bambino come riconoscere e gestire la rabbia o la frustrazione
  • Insegnategli a salutare, a condividere, a stare a tavola, a ringraziare
  • Siategli vicini dal punto di vista emotivo: sorridetegli, abbracciatelo, leggete per lui, giocate insieme

Abbracciateli sempre.

Luigi Pietroluongo

20
Dic

La notte delle scarpe Nike

Una sola domanda: perché?

Mi confesso subito: odio le paternali! Mio figlio non è ancora in età per passare la notte fuori al negozio della Nike, ancora per qualche anno me la scampo.

Ma questo conta poco, resta la domanda. Ma io che farei se mio figlio passasse la notte fuori dal negozio per l’ultimo paio di scarpe o per l’ultimo iPhone?

Primo non drammatizzerei, quella notte fuori va contestualizzata e andrebbe considerata dentro altre domande, per esempio il resto delle sue giornate come le passa, con chi, dove, a fare cosa.

Secondo, mi chiederei ma io in cosa ho sbagliato? Senza frustarmi e fustigarmi sarebbe però opportuno fare il punto della situazione su cosa io sto guardando, sì proprio cosi, vorrei essere consapevole di dove poso lo sguardo.

I nostri figli apprendono per fascinazione, per emulazione, per misteriosi timbri emozionali che entrano nella nostra vita in momenti e attimi che nessuno conosce, eppure si depositano in fondo al cuore e alla mente per riapparire in momenti impensabili.

E allora mi domando, prima di arrivare alla fatidica notte Nike, a che punto è la mia crescita personale? Come ho cura di me stesso? Come alleno i miei talenti, perché la vita di ogni giorno, il mio lavoro non sia soffocato da tutte le difficoltà? Come faccio a non dimenticare la bellezza, la musica, l’arte. Qual’è il mio scopo nella vita? La Parola che segna uno spigolo nella vita, che decide cosa sia giusto fare o cosa sia sbagliato ?

Quando sono andato l’ultima volta al museo con mio figlio? In montagna o al mare con un panino, quante volte abbiamo deciso di cucinare insieme la carbonara. Qual è la giornata che abbiamo passato insieme solo io e lui?, Quando lo avete accompagnato alla sua gara di biciclette, pallone e chissà quale sport. Quante volte lo avete abbracciato, accarezzato, e avete condiviso i suoi sogni con lui?

Quando abbiamo fatto tutto questo?

Forse anche avendo fatto tutto questo mio figlio, domani, passerà la sua notte fuori al ghiaccio  per le scarpe Nike. Ma sarà consapevole che quelle sono solo un paio di scarpe. 

I Sogni sono un’altra cosa.      

15
Dic

Essere Genitore è il mestiere più difficile del mondo. A chi lo dici !

Fare i genitori ? E’ il mestiere più difficile del mondo … dicono, senza alcun dubbio, rispondo. 

Ma essere genitori è anche una delle più grandi e affascinanti avventure della nostra vita, ciò che in fondo da un senso al nostro quotidiano. 

E allora, di tanto in tanto, occorre fare il tagliando. Siamo genitori narcisi?

I Genitori Narcisi vedono i loro figli come “estensioni” di loro stessi e non come persone autonome con proprio idee e gusti che, ovviamente è possibile, possono non collimare con i gusti degli stessi genitori.

In questa tipologia di genitore predomina, sempre e su tutto, la competizione. Quanti (si hai capito bene parlo del numero) sono i compiti da fare a casa, quanti sport e quali risultati, quante lingue e quante certificazioni hanno ottenuto. Fratelli, cugini, amichetti non sfugge nessuno alla comparazione, alla misurazione dei risultati ottenuti.

L’angoscia prestazionale (cit. Prof. Massimo Recalcati), in cui siamo tutti immersi, compie una delle azioni più drammatiche di questo tempo, elimina in ogni bambino la sua unicità’, eliminando in questo modo le sue vere leve educative.   

Poco importa a questi genitori sapere quali siano veramente i desideri o le passioni del piccolo, l’unica cosa che sembra coinvolgerli è riuscire ad attirare l’attenzione e l’approvazione degli altri su se stessi, perché della bravura dei figli loro sono i principali fautori.

E così i bambini vivono il disagio di doversi mettere costantemente in mostra come mamma e papà desiderano, senza potersi concedere il lusso di essere se stessi, di scoprire le loro potenzialità e diventare dei talenti.

Bambini cloni dei genitori, svuotati anche della grinta, del desiderio, della loro identità perdono ogni capacità di empatia con gli altri e sono incapaci di comprendere le loro esigenze perché non riescono a fare una distinzione tra ciò che vorrebbero e ciò che viene loro imposto. Figli che pur di compiacere ai genitori ed essere da loro amati sono disposti a qualunque cosa.

Questo disagio comporta per loro la perdita della sensibilità e dell’empatia verso gli altri e solitamente finiscono per seguire le orme del narcisismo genitoriale come se non avessero altra scelta.

Il meccanismo tipico che il narcisista esercita su un figlio è il controllo totale, condizionante, castrante e generalizzato verso ogni aspetto della vita del piccolo.

Questo controllo si può manifestare in diversi modi, eccone alcuni.

Controllo co-dipendente“ho bisogno di te. Non posso vivere senza di te”, questo atteggiamento fa sentire i figli in colpa se non assecondano il genitore il quale li ricatta addirittura della propria esistenza, impedendo ai figli di avere qualsiasi tipo di autonomia e di vivere la propria vita.

Controllo con senso di colpa:“ho dato la mia vita per te. Ho sacrificato tutto”, questo controllo comporta la sensazione di obbligo e di costrizione nei bambini verso i genitori appesantendoli di un fardello che non hanno scelto né desiderano ma che è totalmente castrante, come se “dovessero qualcosa” ai loro genitori narcisisti e dovessero comportarsi in maniera da renderli certamente felici, diversamente si sentirebbero in colpa per l’infelicità causata ai genitori per averli delusi nelle loro aspettative.

Controllo con astinenza affettiva:“sei meritevole del mio affetto solo perché ti comporti come mi aspetto che tu faccia.”, questa minaccia è la peggiore perché il genitore in tal modo vende il suo affetto soltanto a condizione che ottenga quello che vuole, mentre l’amore per i figli deve essere sempre incondizionato, il bambino percepirà tale minaccia come se fosse il suo comportamento a far scaturire l’affetto e la considerazione di cui ha bisogno pertanto non potrà che assecondare il genitore narcisista.

Controllo sul risultato:“dobbiamo lavorare insieme per ottenere un risultato”, in tal modo il controllo diventa diretto e personale, come se il piccolo fosse pedinato costantemente da una guardia del corpo che vigila su ogni suo passo, è un controllo che toglie ogni libertà non solo fisica ma anche mentale ed emotiva.

Controllo esplicito:”Obbediscimi altrimenti ti punisco”, il figlio deve fare quello che impone il genitore se non vuole essere percosso, atto che solitamente viene esibito in pubblico, per dimostrazione della forza e del potere del genitore ma con la conseguenza di frustrare terribilmente il piccolo che si sentirà umiliato e pieno di vergogna.

Controllo di incesto emotivo:“Sei tu il mio vero amore, l’unico, la persona più importante per me.”, quindi il figlio si sente responsabile della felicità del genitore, in tal modo viene ribaltato il ruolo genitoriale ed il piccolo si trasforma nell’adulto di famiglia con gli obblighi e le responsabilità di un grande.

Vorrei chiarire che le frasi sopra citate, nei genitori narcisi, vengono ripetute ossessivamente, come un mantra e in tutte le occasioni, nessuna esclusa. Non è quindi la frase pronunciata una tantum a creare traumi o chissà quale turbamenti.  

 Ti riconosci dentro una di queste categorie? Guarda gli occhi di tuo figlio vedi se è felice.

Prova ad assecondare i suoi desideri non si sa mai che l’inedito verso cui ti porta possa essere meraviglioso. 

Luigi Pietroluongo  

07
Dic

Il tempo dell’Attesa è arrivato per essere vissuto

 

Siete anche voi, come me, pentiti dei gruppi whatsapp ? O siete di quelli dei “gruppi” a oltranza: la classe, gli amici della V A, il calcetto, le amiche dell’infanzia, gli amanti della lasagna, quelli della domenica, del lunedì, della cena e via all’infinito. 

Oggi siamo dentro all’era del “tutto e subito” , se mandiamo il nostro messaggino whatsapp e non compaiono le doppie spunte, ormai famigerate, si attivano immediatamente i circuiti ansiosi:” perché non mi ha risposto? E’ successo qualcosa ? Non mi vuole più sentire ? Dove mi ha detto che sta c’è linea quindi è in un altro posto ! Mi ha mentito! E via così …

Netflix, On Demand e company ci permettono di vedere le serie TV quando vogliamo, che spesso si traduce in “tutte insieme”, una dopo l’altra senza interruzione, tanto da indurci nella tentazione della maratona televisiva, senza staccarsi dal divano. 

Gli americani, che hanno un nome per tutto, chiamano questi eventi Instant Gratification – gratificazione istantanea, il digitale infatti ci porta a confondere la velocità del mezzo con la velocità del fine, con una sottile illusione di successo, una illusione appunto.

Contiamo i like, i follower, possiamo condividere tutto ed avere il riscontro immediato soddisfacendo, appunto, la nostra gratificazione istantanea e se qualcuno non commenta il nostro cervello inizia a viaggiare e a cercare risposte a domande in nessun modo utili e funzionali  ma soprattutto inappropriate al nostro contesto di vita. Per esempio: perché nessuno mi pensa adesso? Perché nessuno mi considera? I criteri sono appunto i like presi in precedenza e quelli assenti nell’ultimo post.

Tutto e subito però ci porta su strade chiuse, in bilico sui burroni. E’ di qualche settimana fa la triste storia di Lisette, una ragazza della provincia americana che decide di trasferirsi a New York per cambiare vita, si è poi riempita di debiti, fino al tracollo, per mostrare ai suoi follower le foto su Instagram.

Abbiamo perso l’uso della pazienza, la capacità di darsi degli obiettivi di lungo periodo, di dare un significato di valori, un orizzonte di senso, rispondere alla domanda perché abbiamo deciso di fare quello che stiamo facendo oggi? E soprattutto cosa facciamo mentre aspettiamo? E se questa attesa ha un valore ? Il quotidiano ci frulla, la frase più sentita nei discorsi quotidiani è : “corro in continuazione”.

Dovremmo rileggere di come tanti uomini con tante storie di successo, non solo economico, hanno reso l’attesa o sarebbe meglio dire il loro viaggio, fecondo, generativo. 

Il fondatore di Ali Baba, colosso cinese, prima di fondare la sua azienda è stato rifiutato dieci volte da Harvard; il fondatore di angry birds, il gioco più famoso della storia ha fallito, prima di questo, 51 giochi arrivando sull’orlo del fallimento,  l’ideatore di whatsapp quando cercava lavoro è stato rifiutato al colloquio proprio da Facebook per poi rivendergli questa app svariati milioni di dollari qualche anno dopo.

Tutte queste persone hanno amato il loro viaggio, le cose che facevano, il costruirle giorno dopo giorno, con tutti i fallimenti del caso. 

Perché dovremmo dare valore all’attesa, quali sono i vantaggi? Per essere più tolleranti verso i nostri errori ed imparare ad essere più resilienti e con più esperienza, per allenarci alla consapevolezza del tempo che viviamo, qual è la qualità del tempo delle nostre giornate ? Per decidere con discernimento, è giusta questa cosa per me, per la mia storia ? E, infine, soprattutto per imparare, perché dobbiamo darci il tempo per studiare.

Ma ciò che vedo di più in pericolo nella gratificazione istantanea è la possibilità che ci induce, se non otteniamo quello che ci aspettiamo, a recedere verso i nostri obiettivi.

Ma noi tutti sappiamo bene che nella vita le cose che acquistano più valore sono proprio quelle in cui decidiamo che il tempo è stato speso bene.

Luigi Pietroluongo 

05
Ott

Tre modi sicuri per essere infelici, ma forse già li conosci …

Momenti di felicità.

Conosco tre modi precisi e sicuri per essere infelici. Esperienza provata in prima persona.

Lamentarsi, un po di tutto, sempre, dalla mattina fino a sera. La lamentela ci avvolge, coinvolge, satura ogni spazio nella nostra mente e ci paralizza. E’ una grande tentazione, infatti con un piccolo sforzo ottieni un grande risultato: il ruolo della vittima.

Imporre il nostro bisogno. Esempio: “non ti piace il tuo sedere, vai dal chirurgo estetico”, “tua moglie ti rompe, divorzia, sei un po giù, prendi due pillolette. Nelle relazioni, al lavoro o in con il partner, questa dinamica è devastante. Ci concentriamo per far emergere sempre l’inadeguatezza dell’altro e su questo focalizziamo tutte le nostre energie di tempo e di pensiero, dobbiamo richiedere la felicità che l’altro ci ha sequestrato. I dialoghi iniziano sempre con lo stesso pronome:”Tu!”

Il risultato sarà così che i nodi che sono alla base della nostra relazione saranno in questo modo scientificamente irrigiditi e ancora più aggrovigliati.

Soffocare i propri bisogni quando le cose vanno come non ci piacciono, li soffochiamo per il bene comune e non riusciamo più a definire la nostra identità. I malesseri emergeranno con i segnali tipici del disagio che viviamo sul corpo. Ricordo un amico psicologo quando mi disse che: ” gli attacchi di panico sono i nostri più grandi alleati, se la mente non risponde il corpo ci dice chiaramente che siamo su una strada che non va”.

E allora …qual è il segreto per uscire da queste strategie involutive di sicuro insuccesso ?

Il segreto dei segreti per cambiare gli altri è cambiare se stessi. Le cose non cambiano, siamo noi che le cambiamo. Scegli di essere tu la causa delle cose che non vanno come vorresti. La vita è di chi la fa, chi non la fa la subisce. 

La vita, quella fatta di tutti i giorni, mi chiama ad una mia responsabilità, parola ormai desueta e antistorica! Quella di chiedermi che cosa posso migliorare ? In che modo ? Con quali tempi ? Con quali amici ? Con quale mentore ?

Mettere in discussione le abitudini di sempre ci richiede di uscire dalla nostra zona confortevole, farlo da soli è più difficile, decidere di stare insieme ad una buona compagnia è sempre da consigliare, io scelgo con cura i miei amici.

E per finire vi chiedo qual è la cosa più piccola e più semplice che potete fare subito, per fare il primo passo, per mettere la vostra vita nella direzione che desiderate ?

Luigi Pietroluongo

15
Set

Ma io chi voglio essere ?

La follia della reporter ungherese

Questa mattina, casualmente, ho rivisto le immagini famosissime della nota reporter ungherese che durante il suo lavoro, ha fatto uno sgambetto ad un uomo, padre con in braccio il proprio figlioletto.

Sono rimasto a pensare, fissando il muro ed immaginando la scena, che cosa può spingere ad un gesto del genere. E cioè infierire con cattiveria su un disperato con in braccio il proprio figlio che vuole salvare, Dio sa solo da cosa, dalla guerra o chissà da quale povertà.

Ho rivisto il video più volte per provare a immaginare le emozioni e i sentimenti così forti tali da voler far male, ledere la dignità, olteppasare la soglia della normale solidarietà, dimenticare che apparteniamo all’unica razza umana che abita il pianeta terra.

All’inizio ho avuto un sussulto di rabbia, di disgusto, un fremore di vendetta.

Poi, ad un tratto, ho pensato a quali sentimenti di rabbia o vendetta mi porto anch’io nel cuore, a cosa mi spinge fortemente a pensare solo a me stesso, a quali ombre, ben nascoste, conservo nella mia intimità, a quali ferite ancora sanguinanti ci sono nel mio orgoglio.

Ho avuto la percezione che tutta quella malvagità della reporter potesse, almeno in parte, appartenere anche a me, ben mascherata dai miei modi.

D’istinto ho sentito che questa immagine rappresenta nella mia vita di oggi uno spartiacque, un modo per affermare con forza che io non voglio essere come lei e che per riuscirci l’unica possibilità, in mio possesso, è cercare di essere un uomo migliore.

Continuare a cambiare me stesso, crescere umanamente, spiritualmente, professionalmente, non fermarmi, affermare, pur con tutta la mia umanità, che si PUÒ fare esperienza nella vita  dei sentimenti di amore, coraggio, giustizia, umanità, temperanza, trascendenza.

Si deve, si può.

Luigi Pietroluongo

 

 

 

 

24
Ago

Solo sempre i sogni a dare forma al mondo

Mohamed rincorre il suo sogno, ed è una cosa seria.

A 17 anni è testimone autentico della resilienza. Affronta le difficoltà come quelle di imparare l’italiano con tenacia, giorno e notte.

A volte sbadiglia stanco ma poi sorride e continua, non si ferma. Non si fermerà.

Ma lui vuole imparare non solo le parole ma il significato che queste parole hanno tutti i giorni per la sua nuova casa, Casa Italia.

É disposto a mettersi in gioco, a mettere il suo talento da sarto a disposizione di questa comunità. Per lui fare il sarto è prima una vocazione e poi un modo per guadagnarsi da vivere.

Mohamed insegna a rincorrere i sogni, a chi soprattutto non sogna più.
#sonosempreisogniadareformaalmondo

10
Ago

La solitudine dei numeri primi

E chi nun cunusce ‘o scuro, nun pò capì ‘a luce. E.Avitabile

Prima o poi nella vita ci capita di essere numeri primi, di portare sulla spalle il peso delle responsabilità.

Perché sei padre o madre, imprenditore, responsabile, coordinatore di un gruppo di lavoro o perché semplicemente c’è qualcuno che ti guarda e cerca in te ispirazione.

Ognuno avrà fatto esperienza della solitudine, dell’incertezza e del travaglio di prendere decisioni, sperando di averle azzeccate.

Uno dei rischi principali è quello di decidere sull’onda delle emozioni, positive e negative, che gli eventi ci provocano. Il problema è che l’emozione è come una doccia, dopo poco passa e senza aver visto un orizzonte lungo si commettono errori grossolani.

Sembra facile a dirsi, ma come possiamo aiutarci a decidere o meglio a scegliere. Consideriamo pure che la decisione è qualcosa che rimanda all’immediato, la scelta a qualcosa di strategico nel lungo periodo.

Da qualche tempo mi interrogo su questo difficile compito dei “numeri primi” e questa è la mia bussola per orientarmi.

Avere chiara qual è la mia identità, la mia storia umana e professionale, conoscere le mie potenzialità e anche i miei punti di debolezza. Aver fatto esperienza di quali sono i miei sentimenti più profondi nei confronti della vita. Qual e‘ il mio paradigma, il punto di partenza con cui approccio gli altri : “ penso in ogni momento che qualcuno mi vuole fottere ? “,

“ penso di poter dare fiducia e che la mia crescita dipende anche dalle relazioni che vivo “?

Il punto di partenza nei confronti della vita è decisivo perché, quasi sempre, inconsapevolmente condiziona il quotidiano.   

Avere la capacità di leggere il contesto. Dove mi trovo ? Chi sono le persone con cui sono, le loro convinzioni ? Quali sono le leve che possono coinvolgerli ? Ascoltare, ascoltare, ascoltare.

La perdita di Senso, di Significato è, sono convinto, uno dei mali di questi nostri tempi. La precarietà è diventata strutturale, ha scavato nel cuore e nella testa di tutti noi, tutto sembra consumabile immediatamente. Il domani corrisponde ad un altro giorno, a domani mattina. E’ invece necessario ritrovarci tutti sul significato delle nostre scelte più importanti, quelle che definiscono la nostra vita. Perché ho deciso di accompagnarmi con questa persona e non con un’altra, perchè ho scelto di studiare o lavorare in questo invece che in quel settore. Perchè decido di trascorrere il mio tempo con questa compagnia di amici.

Qual è l’orizzonte di senso della mia vita non è un approccio da speculatori filosofici ma ciò che mi sostiene nelle difficoltà di ogni giorno. Indispensabile.

Il criterio del bene e del male. Qual è il criterio che abbiamo scelto per dare un giudizio sugli eventi che ci capitano : la sorte, la Provvidenza, il culo oppure nessun criterio, della serie quello che viene viene.    

Noi siamo la relazioni che viviamo. Gli altri siamo noi cantava Umberto Tozzi qualche anno fa, ed è proprio così. La nostra occasione di crescita umana, spirituale, professionale è legata alle persone che noi decidiamo di frequentare, fanno letteralmente la differenza.

E noi come scegliamo le persone che frequentiamo ? A caso ? Siamo sicuri che ci aiutino a realizzarci ? oppure ci ostacolano ?

Alla fine della mia riflessione mi ritrovo con delle domande, ma non sono proprio le domande giuste quelle che possono guidarci alle scelte giuste.

Luigi Pietroluongo

12
Lug

Abbi cura di te! E’ il saluto dolce di un padre, una madre, un amore, un amico che ti vuole bene.

Non c’è augurio più bello, sentito e profondo che una persona possa fare ad un’altra. La cura di se stessi per avere cura degli altri.

Nella sua forma più antica cura era usata in un contesto di relazione di amore e di amicizia. Esprimeva l’atteggiamento di vigilanza, premura, preoccupazione e inquietudine nei confronti di una persona amata o di un oggetto di valore.

Ci troviamo di fronte ad un atteggiamento fondamentale, di un modo di essere mediante il quale la persona esce da sé per trovare il suo centro nell’altro con affetto e sollecitudine, non quindi come un ripiegamento narcisistico su se stessi.   

Ma ragionando per contrasto l’assenza della cura per noi stessi, i nostri cari, ed i nostri colleghi ci porta ad uno smarrimento, ad un disorientamento, perdiamo i motivi originari che ci hanno portato alle grandi scelte della nostra vita : l’amore, il lavoro, gli amici, l’amore per se stessi e gli altri. Le preoccupazioni di ogni giorno, come roveti spinosi, ci avvolgono senza  tregua. Ci vuole uno spazio di tempo per recuperare consapevolezza, per avere cura di se stessi e capire se stiamo rispondendo alla nostra vocazione, ci stiamo auto realizzando. Anche nel lavoro, come nella vita privata, se ci lasciamo andare, ci abbandoniamo agli eventi polarizziamo verso forti competitività o assoluta indifferenza.

Se non progredisci in virtù di necessità retrocedi scriveva Sant’Agostino, Padre della Chiesa. Senza cura non restiamo sospesi e immobili nel tempo ma andiamo lentamente regredendo.

Nell’Alcibiade di Platone, V secolo prima di Cristo, si riconosce l’attività della autoriflessione e della cura per se stessi addirittura scrivendo quello che oggi chiameremmo diario. Questa attività era pensata in modo permanente in tutto lo scorrere della vita eppure non esistevano i tempi frenetici, inquieti e densi di un’angoscia tutta moderna che Massimo Recalcati, noto psicoanalista lacaniano, definisce come angoscia da prestazione.  In cui misuriamo tutto tranne che il nostro ben-essere, non avendo cura di discernere qual è l’idea che abbiamo del successo e se questo rispetta i nostri meravigliosi talenti. Matteo 25:15 A uno diede cinque talenti, a un altro due e a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità; e partì.

Non ci resta che aiutarci, in questo risveglio profondo di tutti i nostri sensi, che è la scelta di prenderci cura ritagliandoci tempo, imparando un metodo e degli strumenti.  

Il Coaching umanistico è una possibilità, tra le tante. Il suo paradigma culturale ci consente di mantenere una costante spinta all’autorealizzazione delle nostre capacità e potenzialità personali che allenate diventano i nostri punti di forza su cui lavorare per affrontare le nostre difficoltà. Il metodo ci da alcuni consigli per esempio : per realizzare e soprattutto sperimentare la propria vocazione abbiamo bisogno di una comunità, cioè una rete di relazioni di amici adeguate e orientate ai nostri valori. abbiamo bisogno che i valori siano anche condivisi e ci siano interessi convergenti. Morale: cercatevi dei buoni amici. Interrogatevi anche su chi sono i testimoni credibili che conoscete, persone che vivono la vita con forza e ottimismo affrontando la realtà e le sue prove con grande coraggio. Abbiamo molto da imparare ma i testimoni credibili quasi mai sono volti noti, i più sono umili, sconosciuti, eroi del quotidiano.

Domandatevi quali sono le vostre emozioni positive e quali i vostri sentimenti, distinguendo le emozioni come contingenti, momentanee, passeggere e i sentimenti come il pensiero che abbiamo sulla realtà.

E così la prima sera che siete davanti ad un bicchiere di coca cola o di glen grant ascoltando albano e romina oppure gli U2 e così ispirati scrivete una lettera ad un caro vecchio amico.  Raccontategli il significato grande, valoriale delle cose che fate e quali sono i vostri ideali, poi passerete a definire lo scopo che corrisponde al progetto che concretamente contribuisce a realizzare il vostro significato ed infine il senso che è la direzione, le azioni che occorrono per realizzare il vostro scopo.

Se queste tre dimensioni sono in linea siete sulla strada giusta per la cura di voi stessi e degli altri, se non sono allineate è tempo di fermarsi e dedicare tempo a voi stessi. “E’ il tempo che dedicate alla vostra rosa che la rende così importante “ Il piccolo Principe.

Luigi Pietroluongo. 
Editoriale della Rivista “Il Filo della Vita”, edito dalla Cooperativa Santa Lucia Life

 

16
Giu

Oggi sono un padre egiziano

Sono le 15.40 di un un umido pomeriggio estivo nella Valle di Comino, il cielo a sprazzi minaccia pioggia.

Sono nel corridoio della scuola media del paese dove siano presenti con la Casa Famiglia, Ahmed è fermo, immobile davanti a me aspetta il suo turno per l’esame di terza media.

Il corridoio ad un tratto si è svuotato di voci, pianti gioia commossi di padri, madri, nonni, piccoli amori e resta di piombo il silenzio.Io e lui.

Mentre mi avvicino per abbracciarlo e incoraggiarlo lui alza gli occhi al cielo ed inizia a parlare sottovoce in arabo. Sta pregando, si sta affidando. Chiudo gli occhi, prego anch’io, sento che stiamo vivendo un momento forte, coinvolgente e nel suo silenzio pieno di parole, di sogni.

Lui mi guarda cerca coraggio, ne ha più di quello che pensa, così tanto da aver superato a 15 anni montagne di acqua per andare a cercare lavoro e aiutare la sua famiglia. Testimone di speranza oltre ogni omelia.

Ha trovato sulla sua strada un Preside e dei Professori che hanno fatto di più. Hanno scelto di vedere il suo coraggio, la determinazione e i suoi talenti come l’occasione per rilanciare nella vita e non mollare. A tutti loro va il mio grazie sincero, mi aiutano a sentirmi meno solo.

Ormai mancano pochi minuti, sa che è il prossimo, mi cerca con la sguardo, e in quel momento così importante per lui io ci sono.

Si apre la porta, il preside lo chiama. Mi guarda, lui sta diventando uomo e io divento di nuovo padre.

Vai Ahemd!

 

10
Giu

Allenarsi è la cosa più importante. Sì, ma a cosa ?

 

 

 

 

Se non facciamo passi avanti, nell’amore, nell’amicizia, nel lavoro, nella crescita umana, professionale e spirituale facciamo passi indietro.

Non restiamo immobili, fermi, sospesi nel tempo, questa è una nostra illusione, forse labile speranza. Torniamo indietro o sarebbe meglio dire, ci alleniamo al contrario.

Per procedere occorrono alcuni passaggi fondamentali, alcuni esercizi per allenarsi a scegliere la felicità.

Ritagliarsi del tempo per essere consapevoli delle nostre giornate. Ci sono tanti modi per farlo: il diario serale, la preghiera, la meditazione. Un momento, possibilmente mattutino, per fermarsi, è fare unità su noi stessi.

Imparare a separare le emozioni dai sentimenti. Le emozioni sono contingenti, momentanee, legate ad un particolare momento. I sentimenti sono il nostro modo di pensare la realtà, di rappresentarla.

Capire qual è la lente con cui guardiamo il mondo, per esempio qual è la nostra idea di successo nella vita, dipende molto dalle relazioni che abbiamo avuto e che viviamo in questo momento. Senza capire come siamo condizionati, siamo trascinati inconsapevolmente verso un sentimento di felicità o di tristezza.

“Quando ero piccolo non facevo mai i compiti”, dichiara in una intervista Daniel Pennac scrittore di fama, e continua: “ Il mio maestro vedendo le fantasiose scuse che raccontavo ogni volta mi invitò a scrivere ogni settimana una storia di dieci pagine”.

La scoperta dei nostri talenti passa, spesso, attraverso rivoluzioni impreviste, amori finiti, cambio repentino di un lavoro, incontri di amici inaspettati. I talenti si notano quando guardiamo il mondo in un’altra prospettiva.

E tu hai scoperto i tuoi talenti? E come li alleni?

 

20
Apr

Non ci capiamo, lo so è normale.

Lavoro con diverse equipe, ascolto tanti colleghi, nello zaino ho tante esperienze di varie comunità e il risultato è sempre lo stesso, non cambia negli anni, tra di noi non ci capiamo.

In ogni equipe o gruppo di persone che lavorano insieme, il nodo da sciogliere, sempre e comunque, a prescindere dai contesti e dalle latitudini è come comunicare.

Non dovremmo commettere l’ingenuità di pensare che il problema della difficoltà di comunicare che abbiamo riguarda i nostri attuali colleghi oppure il posto di lavoro di cui adesso ci occupiamo. Non facciamo l’errore di pensare che dipende in sostanza dagli altri e non da noi.

Capirsi, farsi capire dagli altri e saper dissentire con serenità e ragionevolezza è roba seria, serissima. Dovremmo decidere di scendere nella cantina del nostro profondo dove riponiamo pezzi di vita che ingoiamo dalla nostra esistenza e che accantoniamo.

In quella cantina dovremmo avere il coraggio, per amore di noi stessi, di accendere la luce ed iniziare a guardarci dentro.

E quindi capire quali sono i sentimenti che ci guidano, qual è il pensiero e la rappresentazione che abbiamo della realtà. Se è un sentimento di bene, amore, saggezza, giustizia, desiderio di vivere profondamente oppure sentimenti di rancore, odio, abbandono. Iniziamo a dare un nome proprio ai sentimenti che ci guidano e che condizionano le nostre scelte e il modo di osservare il mondo.

Vediamo quali e quante emozioni viviamo e con quale intensità. Anche le emozioni, che sono sempre passeggere, hanno bisogno di nomi propri. Sono in balia degli eventi che vivo ? So dare un nome alle emozioni che vivo? Le so riconoscere ?

So capire quali sono i nostri desideri? Che cosa vuoi tu ? Molti adulti pensano che non è più tempo di aspettarsi qualcosa ma se tu non ti aspetti più niente da te stesso l’unica cosa che puoi fare è sopravvivere non vivere. C’è anche da dire che il desiderio adulto si deve saper alleare con la volontà per concretizzarsi. Per ralizzarlo, il tuo desiderio, cosa sei disposto a perdere? ( cit. Jovanotti).

Comunicare ciò che siamo e ciò che sentiamo è certamente un cammino per liberare sentimenti, emozioni, desideri, talenti assopiti.

Ma compiere quel cammino è solo una nostra scelta. Nessuno può farla per noi.

15
Apr

Chi deve insegnare l’Etica del Lavoro ?

 “Vivere per lavorare
O lavorare per vivere
Fare soldi per non pensare
Parlare sempre e non ascoltare
Ridere per fare male
Fare pace per bombardare
Partire per poi ritornare” Lo Stato Sociale. Una vita in vacanza.

Caro amico,

nove volte su dieci arrivi in ritardo al lavoro, il tuo è uno stile, un modo di essere. Trascorri le ore di lavoro al telefonino nelle numerose chat dove sei, dribli meglio di Maradona impegni, responsabilità. Non hai idee, o forse una ogni tanto, ma fai difficoltà a perseguirne una con un minimo di costanza. Nel turno di lavoro fai il minimo e sei sorridente sui social, strafottente nei riguardi degli altri colleghi. Fai il minimo per consocere e approfondire il tuo lavoro.

Conosci a perfezione i tuoi diritti, dimenticando ogni dovere. Non ha mail letto un articolo che ti faciliti la crescita professionale, ti chiarisca dubbi, ti stimoli a prendere nuove idee, iniziativa. Leggi però con attenzione il tuo contratto e tutto quello che ti devono.

Sei tu, caro amico, il centro del mondo, metterti in gioco non ti interessa, non se ne parla proprio. Sei annoiato, il lavoro non ti da stimoli, non hai un minimo di entusiasmo, va bene, anzi va male, ma vorrei farti una sola domanda.

Perché non cerchi un altro lavoro più bello, più soddisfacente, più divertente, dove puoi guadagnare di più ? Insomma essere finalmente e pienamente soddisfatto. Perché non lo fai ? Perché non provi a costruirlo giorno per giorno ? Perché è difficile trovare lavoro ?

E allora, caro amico, cosa vogliamo fare ? Distruggere e contaminare l’ambiente dove adesso lavori?

Io però che non sono perfetto, e che rivendico la mia imperfezione ed i miei errori, ma che mi alleno tutti i giorni per impegnarmi, essere responsabile e sudo per crescere come uomo e come professionista, mi permetto di darti qualche consiglio.

  1. La Vita è una, quando sei al lavoro quelle ore, minuti, secondi sono tempo di Vita che non torna. Riempirli di entusiasmo, impegno e talento è un favore che fai prima a te stesso e poi agli altri. Pensaci perchè questo tempo che vivi ogni giorno al lavoro non ritorna più, è vita che è andata.
  2. Scegli un maestro, un mentore che senti possa corrisponderti profondamente, che vive i valori che vorresti vivere tu, che è entusiasta come vorresti tu, che si impegna  nella vita come credi tu. Ti aiuterà, sarà uno stimolo.
  3. Fai una esperienza di dono dei tuoi talenti alle persone che nella vita sono state più sfortunate di te. Certo possibilmente senza foto sui social e senza secondi fini che non siano farti vedere da quelli come te, quelli che vivono dell’inutile.
  4. Fai un elenco delle tue priorità durante la giornata e scopri se dentro le tue azioni ci sono segni visibili di bene comune.

Questa nostra Italia che vota, milioni di voti, senza sapere neanche il nome del candidato e che cerca un cambiamento dimentica, o non conosce, la cosa più importante per farlo:

che i primi a cambiare dobbiamo essere noi stessi. Ognuno di noi prima di pretendere, faccia un esercizio di quanto è stato capace di seminare.

Perchè tocca anche a te, anche a me.

 

06
Apr

L’insostenibile tentazione di farsi dire grazie

Alì è andato via.

Così senza nessuna spiegazione, almeno apparente, un giorno si è alzato e si è allontanato, senza dire grazie a nessuno. È vero non si lavora per farsi dire grazie, o forse no.

Premetto che sono uno di quelli convinti che saper ringraziare non è soltanto una virtù ma è imparare a riconoscere l’arte del dono per gustarlo, sentirlo profondamento e magari restituirlo per emulazione. Ringraziare Dio la mattina per il dono della vita ci aiuta a ricordarci che tutto quello che abbiamo non è scontato, non è un diritto acquisito.

Nel lavoro educativo cadiamo troppo spesso nella trappola del “travaso” di scienza che l’adulto dovrebbe infondere nel più giovane, come se fosse una relazione a senso unico, solo di uno verso in cui l’altro è considerato solo un vaso da riempire. Certo! Lo sappiamo non è così, eppure qualcosa ci rode dentro.

Molti osservatori sono concordi nell’affermare che la predisposizione all’aiuto dell’altro si realizza quando è solo dentro, in fondo, alla nostra soddisfazione. In sostanza noi aiutiamo quando il gesto che compiamo ci da un ritorno, fosse anche solo di un’emozione che ci piace e ci soddisfa. Una delle raccolte fondi più popolari di una nota opera per i senza dimora di Milano si è promossa, qualche anno fa, dicendo : ” Siate egoisti, fate del bene “.

Questo ci dovrebbe interrogare molto, come uomini e come professionisti del sociale per ritornare alle origini del perchè abbiamo scelto questo lavoro e non un altro.

E’ questa una domanda chiave che esige una risposta, perché senza potremmo cadere facilmente nella frustrazione, nell’indifferenza, nella tentazione subdola di pensare che tanto tutto quello che facciamo non serve a niente. Non è cosi, ne sono sicuro.

Nella vita non tutto si può scegliere, molti eventi ci capitano e basta, eppure dentro le pieghe del quotidiano, proprio in quello dove non avremmo mai pensato arriva un grazie per il dono grande della vita e dei suoi incontri.

Quasi sempre inaspettati.

27
Mar

È tempo di Casa

… a noi ci frega lo sguardo, incontri un bisogno e sai che tocca a te … cit. Don Gino Rigoldi ( cappellano del carcere minorile di Milano)

Lavorare in Casa Famiglia é un grande privilegio, mi ricorda costantemente cosa significa avere una Casa, una dimora, un posto tuo, un luogo da puoi ripartire con la consapevolezza di avere un approdo sicuro.

Ma la Casa è composta, oltre che di muri, anche di relazioni, affetti, abbracci, scontri, abitudini, che partecipano alla formazione e all’identità di una persona; Che grande responsabilità!

E quando sei in viaggio, sperando che tu lo sia, è il posto in cui ristorarti. La Casa é il luogo dell’intimità, in cui sei spoglio delle maschere che metti durante la giornata, é il luogo in cui ritrovarti solo con Dio.

La Casa è il luogo in cui accogliere ospiti, a volte molto lontani dal tuo modo di pensare, ma che ti scomodano dalle zone di confort e ti ricordano che tu stesso sei un pellegrino.

La Casa siamo noi se decidiamo di esserlo, ognuno con il suo e mentre pensiamo di dare inaspettatamente riceviamo.

#diventiamocasaperglialtri